giovedì 27 novembre 2014

I ragazzi che salvano le barche.

Uno strepitoso Luigi Lo Cascio ieri sera a Milano, nella sede dell'ANMI, ha letto pagine del libro Le isole lontane, il diario di viaggio di una coppia di siciliani, Sergio e Licia Albeggiani, che alla metà degli anni Ottanta parte da Porticello - vicino a Palermo - per un giro del mondo durato tre anni a bordo di un Carol Ketch costruito in proprio e battezzato Lisca Bianca in omaggio all'omonimo scoglio vicino a Panarea. Il libro è delizioso, colto, divertente. Ed è un libro d'amore. Sergio e Licia si amavano, la loro navigazione - nell'epoca in cui i navigatori oceanici italiani erano così pochi da potersi "radunare tutti sul ponte di Lisca Bianca"  - è di tipo famigliare. Lui è il comandante e lei il nostromo, una coppia di una certa età, borghesi, con tre figli (li lasciano a terra), che naviga lentamente, senza fretta, godendosi ogni istante dell'andar per mare.

Tornati dopo tre anni in Sicilia , passato un po' di tempo ripartono per rifare il giro del mondo. Destino canaglia: Sergio colpito da un ictus muore a Las Palmas. La storia della coppia di vagabondi del mare e della barca vira verso un triste finale: Licia resta sola, la barca messa in terra. Tutto finito? No. Decenni dopo, Elio Lo Cascio, che oltre a essere fratello di Luigi è anche educatore al ex Malaspina di Palermo - il carcere minorile -  legge il libro e si fa promotore di un salvataggio: recuperare Lisca Bianca, restaurarla e rimetterla in mare. Il restauro che è parte di un progetto sociale (ci lavorano ragazzi di una comunità e giovani detenuti) inizia e, come sanno tutti quelli che sono passati dall' avventura del salvataggio di una barca, è un alternarsi di entusiasmi, di fatiche, di ricerca di fondi, di speranza, di delusioni, di stanchezza e di gioia.
Altro luogo, altra storia. Questa estate abbiamo conosciuto due ragazzi milanesi, Davide e Damiano.  Uno fa il chimico, l'altro il liutaio. Hanno comperato il Dideci, un Gaff Ketch costruito nel 1926 dai cantieri Schulter (UK),  lo hanno portato a Bocca di Magra e da tre anni, lavorandoci ogni momento libero, vivendo in tenda, e mettendoci tutti i loro risparmi lo hanno restaurato.
Bisogna aver messo le mani su una barca di legno, bisogna aver passato anni e anni in cantiere coperti di polvere e macchiati perennemente di Sika (che ti si attacca sempre dappertutto come una maledizione), bisogna aver provato la frenesia della demolizione, e il lento passo della ricostruzione, bisogna aver vissuto nel tempo dilatato e lento del lavoro manuale per capire la bellezza, la potenza di queste storie di salvataggio di barche.
Chi si mette nell'impresa di un restauro entra in un mondo parallelo: tutte le energie sono concentrate lì. Il tempo comincia a scorrere con un altro ritmo.
È una specie di iniziazione: corpo e mente si muovono insieme. La fatica fisica è continua ma salvifica, la mente si misura con grandi e piccoli problemi pratici e serve creatività, fantasia, intelligenza per risolverli. È un'avventura nel vero senso della parola, tanto quanto solcare l'oceano.
Poi c'è il varo. Il nuovo stato nascente, momento in cui metti un punto fermo: "Siamo arrivati fin qui, ce l'abbiamo fatta!". Ed è pura gioia.
Storie di barche salvate qua e là per l'Italia ce ne sono. Non tante quante ce ne vorrebbero. Sono  decine le barche dimenticate. A volte sono scafi  con una storia gloriosa alle spalle, altre volte sono barche anonime ma, a modo loro, pezzi di una storia nautica italiana che nessuno si preoccupa di conservare, salvare e rinnovare. Non c'è niente di più triste della vista una barca che va in malora, che sia un vecchio gozzo o una spericolata barca di Coppa America.  Eppure accade, in questo momento, in decine di porti italiani.
Sarebbe bello che storie come quelle (citiamo solo quelle che conosciamo ma magari chi legge può segnalarcene altre) della goletta Oloferne (ah sì, questa la conosciamo molto bene), di Lisca Bianca, del Dideci, o dello sloop Alpa restaurato dall'associazione Amici della Darsena romana, o quello del gozzo Pexino riportato a nuova vita dai giovani spezzini del gruppo Opera Viva, si moltiplicassero. Un nuovo modello di nautica italiana potrebbe ricominciare da qui: dai restauri delle barche. Così come è nato il movimento "Cubatura zero" per il recupero delle case e lo stop al consumo di suolo, potrebbe nascere un movimento di recupero delle imbarcazioni, di legno, di vetroresina, di acciaio o di ferro. Un patto tra cantieri, privati, associazioni e enti pubblici per salvare le barche e le loro storie e garantire loro un nuovo futuro. I vantaggi sono evidenti: meno relitti galleggianti da smaltire, nuovo lavoro   senza aspettare le commesse dei magnati russi, recupero e diffusione delle competenze cantieristiche, progetti sociali sul mare, o semplicemente possibilità per chi vuole avere una barca di mettersi in gioco cominciando a lavorare in cantiere. Avremo barche vive e marinai migliori.
Ps. Mettete nella biblioteca di bordo Le isole lontane di Sergio Albeggiani. Merita. 

2 commenti:

  1. Alle considerazioni fatte in questo bellissimo post, ci aggiungerei il bisogno di perpetuare una storia, quella della nostra identità marinara, che non può assolutamente cadere nell'oblio. Mi permetto di condividere questo post, nel gruppo facebook "barche storiche" . Un gruppo che condivide pienamente lo spirito di quest'articolo.
    Mimmo Cormio

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